“Perché è così difficile descrivere un vino, tra Denis Dubourdieu e Ludwig Wittgenstein”
Possiamo pensare, a volte, di poter dire le stesse cose in altro modo. Altre volte, ancora, riteniamo di poter affermare dei concetti usando mezzi che non sono parole, perché le parole non bastano: disegni, sguardi, mimiche, figure, fotografie, filmati… Altre volte, poi, consideriamo di poter dire senza parlare, perché è solo col silenzio che riusciamo a comunicare qualcosa. Permettiamo, in questo modo, alla parola taciuta di potersi rivelare. Altre volte, infine, non abbiamo alcun mezzo per abbozzare ciò che avvertiamo e la parola non è che il limite stesso, ultimo, della nostra capacità di comprendere. La parola non dice perché non può dire, non perché non lo voglia: non ne è capace allo stesso modo in cui noi non lo siamo. Ed è così per il vino.
Denis Dubourdieu affermò che la nostra attività sensoriale, quando assaggiamo un vino, si verbalizza male e, il più delle volte, risulta addirittura indicibile. Così lui, l’Enologo, propose, per ovviare alla questione, la creazione di un linguaggio di sodali, della propria tribù o degli affini. Di quelli che si capiscono, almeno tra di loro. Ma l’indicibile, ciò che sarebbe meglio tacere, non ha verbalizzazione alcuna. Allo stesso modo in cui ci emozioniamo nell’ascolto di un pezzo musicale, così avviene di fronte ad un vino in cui vi è della musica liquida, proseguì Dubourdieu (Et le vin, c’est de la musique liquide). A questo aggiunse che le attività di scoperta e di descrizione di un vino non posso essere confuse: sia per qualità che per modalità (in tempi necessariamente diversi). In un testo uscito postumo (1953), Ricerche filosofiche, il filosofo Ludwig Wittgenstein scrisse che “il comprendere una proposizione del linguaggio è molto più affine [verwandter] al comprendere un tema musicale di quanto forse non si creda. Ma io la intendo così: che il comprendere la proposizione del linguaggio è più vicino di quanto non si pensi a ciò che di solito si chiama comprendere il tema musicale. Perché il colorito e il tempo devono muoversi proprio secondo questa linea? Si vorrebbe dire: «Perché io so che cosa voglia dire tutto questo». Ma che cosa vuol dire? Non saprei dirlo. Per darne una ‘spiegazione’ potrei paragonare il tema con qualcos’altro che ha lo stesso ritmo (vorrei dire, la stessa linea)”. [Wittgenstein 1953, trad. it. 1967:188] È come se sentissimo che, una volta esaurite tutte le possibilità scientifiche, tecniche, percettive, il nostro problema non sia stato ancora neppure toccato: il limite, dunque, non può essere tracciato che dal linguaggio e tutto ciò che lo supera non sarà altrimenti che non-senso. Questo limite è il limite del nostro mondo: noi non possiamo dire ciò che non riusciamo a pensare. Quando descriviamo un vino siamo in maggior misura abituati ad utilizzare ciò che alcuni analisti (tra cui lo stesso Dubourdieu) evidenziarono come “prototipi” del linguaggio, fondati su termini di paragone e di somiglianza “it look like such-and-such”, piuttosto che su termini di possesso di certe proprietà descrittive attribuite al vino stesso: ‘‘it possesses such-and-such properties’’. Faticare a descrivere un vino e, talvolta, non avere le parole per farlo, è assolutamente normale. Generalmente più normale del suo contrario.
[di Pietro Stara, intravino.com del 30 novembre 2016]