“Depressi perché il vostro Prosecco costa quanto un tappo di Champagne? Stanchi del vostro consorzio che non riesce a conquistare il mercato cinese? Il successo dei vini alsaziani vi fa spuntare i canini che neanche un lupo mannaro? Tranquilli, c’è chi sta peggio di voi. Per riportare la vostra bile a livelli accettabili, il reparto psicanalisi di Intravino ha tradotto alcuni brani di un articolo sul vino italiano pubblicato dalla rivista spagnola El Mundo Vino. Loro sì che sanno cos’è l’invidia: leggere per credere.
L’ITALIA ALLE STELLE, LA SPAGNA NELLA MASSA di Juancho Asenjo

Può l’Italia essere un esempio per il vino spagnolo? Dal 2006 l’Italia ha cessato di essere il re dello sfuso, cedendo a noi questo discutibile onore. Un “sorpasso” che non sappiamo ancora dove ci porterà. Facendo una comparazione tra Italia e Spagna, vediamo che negli ultimi quindici anni il panorama del vino è cambiato molto: nel 2000 gli italiani vendevano a un prezzo simile a quello degli spagnoli, ovvero a circa 1,40 euro/litro. Tre lustri più tardi l’Italia ha aumentato il suo prezzo medio a 2,50 Euro/litro mentre noi abbiamo raggiunto a malapena un euro/litro. Le vendite italiane sono cresciute in volume più del 15% e oltre il 20% in fatturato. La chiave di ciò va cercata in Italia in una nuova visione del commercio. Meno vino sfuso (dal 48% del totale esportato nel 2000 l 27% di oggi, mentre in Spagna nello stesso periodo si passava dal 48% al 55%) e più vini fermi e spumanti, imbottigliati. E’ aumentato il numero dei mercati e questo ha riguardato tutti i tipi di vino ma soprattutto quelli di fascia medio – bassa. Prima la Francia era il principale cliente dello sfuso italiano, ora lo scettro è passato a noi. Invece loro, gli italiani, hanno aumentato la vendita dei prodotti imbottigliati nel Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Cina e Sud Est asiatico e Russia, mantenendo e consolidando al contempo i mercati più tradizionali come quello tedesco e quello del nord Europa. […] Cosa può apportare l’esempio italiano al nostro disastrato sistema? Cosa ha permesso agli italiani di progredire mentre noi regrediamo? Che cosa si può fare? Cerchiamo di focalizzarci su alcuni dei punti chiave e di metterli in relazione. […]

I prezzi, i maledetti prezzi
Una delle principali differenze sta nel prezzo dell’uva che varia di paese in paese. E il rispetto verso il viticoltore, la sua considerazione come parte fondamentale nell’ingranaggio commerciale. I prezzi dipendono da alcune costanti: la qualità del prodotto, la relazione tra prezzo e innovazione e non solo tra prezzo e qualità (la presentazione della bottiglia, l’etichettatura, la comunicazione, l’imballo …). In Spagna i prezzi sono bassissimi e raramente sono giusti o dignitosi. Gli italiani hanno imparato grazie alla crisi a fare investimenti a medio e lungo termine. La politica del basso prezzo rappresenta la lenta morte del sistema. Ci sarà sempre qualcun altro in grado di abbassarlo più di te. E quando quel qualcuno non c’è, la cosa non interessa a nessuno. Ma chi può garantire al viticoltore che se limita la resa riuscirà a coprire i costi? Nessuno. Vendere qualità costa un po’ di più ma ne vale la pena. Richiede lavoro e fatica. In Spagna, all’interno di molte denominazioni l’uva costa meno che dieci anni fa’ ma il viticoltore paga molto di più tra l’aumento delle tasse e i costi dei prodotti che gli sono necessari. Un tempo si faceva anche il nero, ora è molto più complicato. Una differenza, che è allo stesso tempo una contraddizione, sta nel fatto che l’Italia è un paese con abitanti più vecchi rispetto alla Spagna ma ci sono molti giovani che lavorano la vigna perché l’hanno ereditata dai genitori e ne sono proprietari e producono il proprio vino. In Spagna i viticoltori svendono l’uva, spesso incassano tardissimo e l’età media cresce sempre di più. Non ci sono giovani pronti a lavorare da piccoli produttori. In Italia chi lavora la terra gode di alta considerazione. In Spagna sembra un lavoro minore. Negli anni ’70 il vino italiano veniva chiamato negli Stato Uniti “Red Cola” ed era sinonimo di bassa qualità a buon prezzo. La sua immagine era di bassissima lega. La produzione dei terreni dell’Emilia Romagna raggiungeva i 21.000 litri/ettaro. Oggi si è scesi alla metà. L’aumento degli ettari vitati nelle denominazioni più nobili contrastano con la drammatica diminuzione nelle zone meno prestigiose. Ma la crescita c’è stata, in Italia come in Spagna, in zone dall’identità meno forte. Gli ettari sono diminuiti ma la produzione si è moltiplicata, di più in Spagna, prendendo come esempio Castilla–La Mancha. Mi chiedo spesso se siamo consapevoli di dove stiamo andando.

La lotta contro le frodi e la difesa dell’origine… In Italia
Anche se può sembrare una bugia, le frodi o i tentativi di frode nel vino vengono perseguite da noi in modo del tutto superficiale. Il Ministero per le Politiche Agricole ha lavorato bene nel caso del Prosecco agendo contro le aziende che compravano le uve fuori della denominazione e hanno multato le aziende che attuavano la truffa, così come aveva fatto in Friuli e in Toscana e in altre zone vinicole. Si è mai visto qualcosa del genere da noi? Lo scandalo del metanolo fece sì che le autorità prendessero coscienza della situazione e cominciassero a contrastare questa piaga. Nel 1986 ci furono 23 morti. E le richieste di risarcimento continuano ancora oggi. In Italia da qui si cominciò a produrre leggi più severe. Si può contare oggi su un rigido sistema di tracciabilità dell’uva prodotta. […] Si tratta di un sistema fatto di regole ferree finalizzate a garantire che il prodotto provenga dal territorio dichiarato. Da allora i disciplinari che regolano le differenti denominazioni d’origine sono molto chiari per quanto riguarda le rese, le zone di produzione, eccetera. Le rese delle DOP sono alte, come in Francia, ma vengono rispettate. In rete è possibile trovare tutti i disciplinari. Tutto questo in Spagna non risulta così facile dove sono addirittura scomparsi i dati dalla pagina istituzionale del Ministero. […] Esiste una sorta di Interpol del vino. Se un vino non rispetta la legge viene sequestrato. Certo, chi aggira la legge c’è ancora, ma ora è consapevole di farlo. In Italia la tolleranza è zero mentre in Spagna gli sguardi si perdono nell’immensità del mare con i fuorilegge che continuano disinvolti a campare a loro agio senza paura. In Italia ci sono decine di denominazioni che premiano le differenziazioni e fanno contenti tutti (più di 400). Ci sono anche varie DOCG, simili alle DOC spagnole, che non meriterebbero questa categoria ma, si sa, è lo scotto politico da pagare. […]

L’industria
In Italia il vino è un settore solido che rispetta le tradizioni con uno sguardo al futuro. Non possiamo prenderci in giro: la differenza più grande sta nel vigneto. Le grandi aziende italiane hanno capito che per accrescere il proprio successo è indispensabile il vigneto. Sono diventati proprietari, a differenza di molti spagnoli che non possiedono neppure un ettaro. […] In Italia il viticoltore riesce a vivere mentre in Spagna lo si affoga. C’è una causa fondamentale: la burocrazia italiana è la peggiore d’Europa. Non funziona per niente. Per questo gli imprenditori si sono dovuti arrangiare invece di aspettare sovvenzioni o che vengano risolti i problemi dall’alto. […] Le aziende italiane di punta hanno creato importanti piattaforme di distribuzione e logistica, fisiche e online. Hanno punti vendita in regioni differenti. Il successo dell’e-commerce è importante. Basti vedere i siti di vendita delle aziende italiane e compararli con quelli di quelle spagnole. In Italia i grandi proteggono i piccoli perché lavorano in addizione e non in sottrazione, a differenza di quanto si pensa qui. Lì vanno insieme alle fiere internazionali con i loro consorzi. Valorizzare il vino porta vantaggi a tutti. In Spagna le leggi sono state fatte sempre a partire dall’imbottigliatore. Negli anni 60 e 70 ne esistevano pochissimi ed erano indispensabili ai proprietari di vigna che dovevano necessariamente rivolgersi a loro se volevano vendere le loro bottiglie. E’ così che si cominciò a perdere l’identità del prodotto. Il vino italiano è cresciuto di un 6,5% e il rosso toscano di un 28,5%. Le aziende italiane non vendono solo una bottiglia piena di liquido. Vendono il luogo di nascita, vendono la tradizione, la storia, la cultura e la Toscana è un qualcosa di unico al mondo. Michelangelo, Raffaello, Leonardo da Vinci, Galileo… La cattedrale di Firenze o Siena, la Torre di Pisa o San Gimignano… La Toscana è la sua gastronomia e il Rinascimento, i cipressi e le dolci colline. Saper vendere tutta questa magia in una bottiglia premia. In Spagna non abbiamo mai venduto niente del genere. Pochi sanno che la Galizia è, oltre alla cattedrale di Santiago, anche cucina di pesce e tortilla di patate, spiagge selvagge, natura cangiante… Ogni territorio ha la propria cultura e la propria storia, ogni territorio offre un’identità. Un sigillo di garanzia che l’Italia ha saputo valorizzare.

Prosecco e Cava: esempio non solo emblematico ma anche traumatico
L’esempio più chiaro dei differenti percorsi presi da Italia e Spagna è quello del Cava (spumante metodo classico spagnolo, n.d.t.) e del Prosecco. I migliori Cava sono superiori ai Prosecco di più alta gamma e possono considerarsi al pari di grandi Champagne. Terroir, classe, basse rese, tecniche di coltivazione rispettose della terra… in un vino che è stato tradizionalmente caratterizzato più dal tipo di affinamento che dal suo luogo di nascita. C’è anche una fascia media di Cava di buona relazione qualità/prezzo, ma comunque la vittoria va sempre al Prosecco. Il Prosecco è un prodotto industriale spumantizzato in autoclave per piacere a un pubblico molto eterogeneo. È facile da bere, riconoscibile e non supera il prezzo che il consumatore è disposto a pagare. Né troppo basso né troppo alto, ha conquistato il pubblico più giovane. Tra gli scaffali del supermercato si trovano Cava che costano poco più di un euro. Quanto costerà il kg di uva necessario? I prosecco costano tra i 6 e gli 8 euro. Sono state espiantate vigne di pinot grigio, il vitigno più venduto, per piantare prosecco. E’ stata ampliata la zona di produzione che arriva al Friuli partendo dalle colline trevigiane. Se ne vendono più di 200 milioni di bottiglie, 55 milioni delle quali nel Regno Unito con un incremento del 60% di anno in anno. Il segreto è nel fatto che non ci siano segreti. Trentini e veneti sono grandi maestri del metodo Charmat, che hanno sviluppato e perfezionato partendo dall’invenzione omonima. Il nome prosecco è popolare in tutto il mondo. Il Cava è solo una denominazione d’origine recente. Le rese consentite nella DOCG raggiungono i 13.500 kg o i 12.000 di Cartizze, simili a quelle del Cava e costano un euro al kg mentre per il Cava si spendono 0,15 – 0,30 euro/kg, con diminuzione costante del prezzo. I termini “Cartizze” e “Rive” indicano un vigneto eccezionale e sono la punta di diamante della regione pur non raggiungendo né il prezzo né la qualità del nostro spumante. Ha senso l’affinamento di nove mesi in legno che fa solo salire il prezzo finale? – così si domandava Pedro Ballestreros in un articolo recente su “Planeta Vino”. Commercialmente non ne ha. Così come è difficile spiegarsi la mancanza di una differenziazione, come in Francia, tra chi produce e imbottiglia il proprio vino e chi compra l’uva e l’imbottiglia. I fatti danno ragione: la denominazione Asti Spumante è sull’altro piatto della bilancia: adottano il modello spagnolo e falliscono di continuo.

Commercializzazione e marketing
In Spagna i grandi produttori non danno importanza al problema della qualità, del prezzo, del marketing, né della mancanza di promozione. Non difendono l’unità. Gli italiani hanno sbancato in America, superando gli australiani, vendendo l’identità varietale. Gli australiani vendevano shiraz, chardonnay, cabernet o pinot nero, uve che si potevano trovare anche in California, Oregon o Washington. Gli italiani, invece, portarono sangiovese, nebbiolo, montepulciano, nero d’avola, pinot grigio e garganega permettendo così ai consumatori di mezzo mondo di viaggiare senza spostarsi di casa. […] Barbera d’Asti o di Alba, Dolcetto di Dogliani o Alba, Sangiovese di Romagna, Verdicchio dei Castelli di Jesi o di Matelica, Greco di Tufo, Fiano di Avellino, Cannonau di Sardegna, Brunello di Montalcino, Primitivo di Manduria, sono tutti varietali che hanno una relazione con il loro luogo di origine. In Spagna un’industria del vino esiste appena. Le relazioni dell’Italia con il resto del mondo esistono da anni e questo le ha facilitato l’ingresso sui mercati stranieri. Ci sono molti proprietari di cantine che sono italoamericani. Nati in Italia o in America. Ogni denominazione ha un apripista: Banfi per il Brunello, Mastroberardino per il Taurasi, Antinori per il Chianti e anche importanti imprenditori come Farinetti che, oltre a fondare Eataly, comprò Borgogno e Fontanafredda nella sua terra piemontese. Ci sono centinaia di ristoranti italiani in ogni paese del mondo che offrono i prodotti italiani come punta di diamante. Un modo per difendere la cultura. Noi non abbiamo fatto la stessa cosa: a Buenos Aires vive più di un milione di galiziani, più che a Vigo, La Coruna e Santiago messe insieme. E non c’è un locale che venda i prodotti di questa terra. Invece nella costa del Sol e nel resto della Spagna ci sono migliaia di ristoranti italiani. La Spagna non ha saputo sfruttare i suoi contatti con l’America di lingua spagnola. La vendita estera richiede tattiche distinte a seconda del paese a cui ci si rivolge. Gli italiani ci riescono con facilità. L’etichetta è il punto fondamentale: una uguale per tutti e un’altra per ogni zona specifica. Adattarsi ad ogni realtà. Anche l’enoturismo è un comparto ben sviluppato in Italia ed è un’altra carenza spagnola. […]

Differenze culturali
La gastronomia italiana è stata uno dei baluardi principali del successo del vino. Dalla Storia Naturale di Plinio il Vecchio sono andati a braccetto. Gastronomia e vino sono una cosa sola. In Spagna il vino è ancora un alimento che, a mala pena, forma parte della nostra tradizione. In Italia sarebbe impensabile che in una zona come La Mancha i produttori non bevessero vino. Continueremmo a dire che il nostro è il migliore senza conoscere né quello lontano né quello vicino. La mentalità spagnola è quella di pagare il meno possibile per qualunque cosa ma ottenerne il massimo. Un esempio: il vino al calice e quello nei locali. In Italia per un calice si spendono dai 4 ai 12 euro con una media di 7-8 euro. Questo in Spagna è quasi inconcepibile ma nessuno protesta per i 12 euro spesi per un gin tonic. Molti consumatori spagnoli considerano i prezzi nei locali come una rapina ma in realtà sono tra i più economici di tutta l’Europa Occidentale. Si dimostra così che il prezzo del vino ha poco a che fare con il suo consumo. In Italia ed in Francia, pur essendo il vino molto più caro, se ne consuma molto di più. In Italia c’è una cultura del vino anche all’interno delle classi dirigenti e tra chi fa tendenza. In Spagna, invece, sono in pochi ad avere gusto e sensibilità per la materia. Chi governa la Spagna e l’Europa ha cercato di fare a pezzi il vino a base di sovvenzioni volte alla ristrutturazione del mercato vinicolo. Il fallimento è stato assoluto. Si voleva una produzione divino quantitativamente minore però di miglior qualità e si è ottenuto l’effetto esattamente contrario: più vino di minore qualità. L’Italia e la Spagna convergono in un punto: i migliori vini sono quelli prodotti da chi si è allontanato dalla dirigenza politica. La soluzione è: far sì che la piramide funzioni dalla base alla punta. Se è solo la punta ad avere successo, finirà in un fallimento. L’Italia ci sta mostrando la via. La realtà è cambiata. Le preoccupazioni dei vignaioli non hanno nulla a che vedere con quelle di chi pone loro la corda al collo. Non c’è una sola via, ce ne sono tante, anche se sono tutte campi minati.

JUANCHO ASENJO [Traduzione di Alice in Wonderland].” (di Antonio, Tomacelli www.intravino.com di gennaio 2016)