“Esce pubblicato da DeriveApprodi, il nuovo libro di Corrado Dottori dall’impegnativo titolo “Non è il vino dell’enologo – Lessico di un vignaiolo che dissente” (pp 136, 13 euro). Dottori fa vino, buonissimo vino, nell’area del Verdicchio dei Castelli jesini. Noi della guida espressica, per dirne una, abbiamo trovato eccellente la Riserva Gli Eremi 2010, e pressoché eccellente il Terre Silvate 2011. Il volume, benché fresco di stampa e solo all’inizio della sua vita sugli scaffali, è già dotato di ben due prefazioni: una a firma dell’apocalittico Jonathan Nossiter, l’altra dell’amico e collega Giampaolo Gravina. Qui riportiamo quest’ultima, che ci pare un viatico intenso e originale alla lettura del libro.

Nel mondo del vino, mai come oggi la nozione di territorio si affaccia in ogni discorso, il più delle volte maldestramente banalizzata, e non di rado strapazzata, equivocata, abusata. Si avverte un bisogno diffuso di vini capaci di riannodare ed evidenziare la relazione con i propri luoghi di origine, di valorizzarne la vocazione più autentica, di recuperare un’identità specifica. Eppure questa esigenza di vini tipici e territoriali si esprime in modo contraddittorio e ambiguo. Tra i consumatori la consapevolezza resta ancora troppo episodica e intermittente, e chi punta il dito contro la deriva di omologazione del gusto favorita dall’avvento del vino industriale non sempre è disposto a riconoscere agli artigiani del vino un di più di prezzo e di personalità espressiva. Tra i critici e i degustatori professionisti le ambivalenze sono più scoperte e rasentano talvolta la dissociazione: tutti d’accordo che il vino si fa in vigna, meglio se con uve autoctone e in regime di agricoltura biologica, salvo poi mostrare una prudenza a dir poco stagnante nell’interpretare e valutare quegli assaggi in cui le ragioni della confezione enologica cedono il passo a un carattere più immediato e meno rassicurante, quando non apertamente insofferente alle regole della grammatica enologica. Tra i produttori, infine, i toni si fanno spesso più accesi, il ricorso ai prodotti chimici e alle consulenze enologiche da un lato, un certo laissez faire la nature venato di arcaismo dall’altro alimentano sospetti e diffidenze reciproche. La logica di schieramento tende a prevalere, la spaccatura è continuamente in agguato. A ben guardare, tra i diversi pomi della discordia l’enologo rivendica un suo protagonismo. Se il suo ingaggio si traduce in un’investitura acritica, se la sua consulenza è ispirata a un certo interventismo e se le procedure adottate prevedono protocolli standardizzati e prodotti selezionati, quello che finisce in bottiglia diventa il più delle volte il vino dell’enologo. Un enologo – per dirla con Michel Le Gris [1] – le cui giuste preoccupazioni per la sicurezza e l’igiene dei vini sono spesso deformate in ossessioni; la cui rispettabile professionalità di “medico del vino” è pervertita in calcolo del gusto. Un enologo ansioso, affannato in una rincorsa a sanare preventivamente ogni eventuale difformità da quel modello gustativo tanto artificioso e insopportabile che ammette solo vini dal tatto levigato, dai profumi amplificati e dal gusto dolciastro: un modello che non tollera se non le sensazioni più ovvie e accattivanti, concentrazione e morbidezza in primis, restando per contro ampiamente refrattario a ogni esigenza di tensione, di contrasto, di dissonanza gusto-olfattiva. Se le cose stanno così, il vino di Corrado Dottori non è il vino dell’enologo, né mai lo diventerà: si può starne certi. E questo suo libro argomenta il perché, coi toni pacati ma fermi di un’indagine sul campo che è anche, simultaneamente, un racconto di formazione. Un racconto che dà voce alle perplessità, alle obiezioni, agli interrogativi di un vignaiolo «nato per correre», ma che si diverte di più a sentire la fatica di inerpicarsi su per i pendii aspri di certe domande scoscese che non a imboccare le scorciatoie in discesa di tante risposte rinunciatarie e pacificate. Ci vorrebbe un Corrado Dottori in ogni regione del vino, per aiutarci a restituire autentica dignità di problema alle molte questioni che abbiamo davanti. E per mostrare come si possa conservare la radicalità dell’approccio e l’urgenza di fare attrito senza restare per forza impigliati nella retorica degli slogan e nel falso dilemma tra apocalittici e integrati. Ama i vini irrequieti, Corrado, ma anche i vini classici: embè? Forse che la passione per Monk pregiudica l’ascolto di Bach? Forse che emozionarsi davanti a una Combustione di Burri contraddice la predilezione per La Madonna del Parto di Piero? Andatevi a leggere la voce Complessità di questo suo personalissimo lessico dissenziente: troverete un’apologia del vino imperfetto e controcorrente in cui ogni appassionato potrebbe (dovrebbe?) riconoscersi. Ma so già che non andrà così. So già che ai maestrini della matita rossa e blu Dottori farà storcere il naso e arricciare il sopracciglio: come quando molti sedicenti degustatori assaggiano i suoi vini e scuotono la testa, rimproverando l’assenza di limpidezza, l’acidità volatile piuttosto alta, la sapidità violenta, il finale brusco. Conformismo? Miopia? Insicurezza? Residui non solubili di tutto ciò impediscono alla critica vinicola di riconoscere unanimemente Corrado Dottori per quello che oggi è: vale a dire l’interprete più ispirato e (con Natalino Crognaletti) il viticoltore più consapevole dell’intero panorama del Verdicchio dei Castelli di Jesi. Io me ne sono persuaso già da qualche anno e lo vado scrivendo a destra e sinistra, passando il più delle volte per scemo. Ma ne resto fortemente convinto, tanto più dopo aver letto questo libro. Un libro che prende risolutamente le distanze da quella «tirannia dell’immediatezza» (come la chiama Le Gris) di natura essenzialmente narcisistica, che presiede alla confezione di vini sempre più manipolati, addomesticati e proni alle logiche del marketing. Ma lo fa senza gesti plateali né scene madri, senza per forza dover uccidere il padre e mandare tutti a quel paese. Al contrario, Corrado ci va lui a quel paese: e lì, a Cupramontana, ritrova il padre e la sua vigna – benché per goderseli insieme non ci sia più tempo: ma non è sempre un po’ troppo tardi quando ritroviamo i nostri padri? – si rimbocca le maniche, recupera il vecchio vigneto e la cantina, ristruttura la casa, ci si trasferisce con la sua compagna Valeria, ci fa due figli e riavvolge i fili del suo progetto di vita nel segno di una nuova pienezza di senso. Attenzione, però. La delicatezza del tocco con cui l’autore rievoca quella breve parentesi di intimità con suo padre che ne precede la morte, la limpidezza dell’entusiasmo con cui illumina lo scenario della sua svolta rurale non devono tuttavia trarci in inganno: questo non è un libro tenero e non suggerisce nessuna prospettiva idilliaca, anzi. È un libro aspro e di denuncia, segnato da una consapevolezza amara, disincantata e tutt’altro che indulgente. Ma è anche un libro succoso e appassionante, ricco di sollecitazioni, generoso e propositivo. E se va giù in un sorso, lascia però una lunga e vibrante persistenza: una scodata di reattività che farà discutere, come per i libri (e per i vini) che amiamo di più.


[1] Michel Le Gris, Dioniso crocifisso. Saggio sul gusto del vino nell’era della sua produzione industriale, traduz. di Roberto Gelini rivista da Ilaria Bussoni, Derive Approdi, Roma 2011. Dottori, che conosce bene e apprezza le analisi di Le Gris, le richiama qui efficacemente nella voce Gusto (p. 45-46). In un breve testo recentemente apparso sul numero dedicato al vino della Rivista di Estetica e curato da Nicola Perullo, ho provato anch’io a utilizzare le considerazioni di Le Gris per una riflessione sul compito della critica vinicola e sull’esigenza diffusa di un «degustare altrimenti» (Che gusto c’è? Considerazioni semiserie di un assaggiatore di vini sulle controverse prospettive della degustazione professionale, in Rivista di Estetica 51, 2012, p. 149-154).”

(di Giampaolo Gravina in http://vino.blogautore.espresso.repubblica.it/)